Contest “la vita in maschera” – Daniele Ferrucci – Scrittura
ASRAEL
Non possedere lineamenti, ma solo una massa viscida e informe, come una sorta di rivoltante impasto da cucina, era la sua maledizione. Per una beffa del destino la sua materia era stata plasmata senza identità; invidiava agli uomini il dono di possedere un volto.
L’angelo si alzò prima dell’alba ed entrò nella galleria avita. Appesi come trofei alle pareti nere, un numero imprecisato di visi brillavano come costellazioni macabre. Li osservò, fece la conta sui grani di quel rosario raccapricciante, infine ne scelse uno signorile: naso importante, sopracciglia arcuate, labbra carnose e dalla piega altera, barba elegante e ben curata. Lo calzò su quell’ammasso anodino che era la sua faccia. Completò l’opera scegliendo degli occhi verde smeraldo velati da un filo torbido che aggiungeva mistero a uno sguardo magnetico e sfuggente. Indossò un completo beige e una cravatta scura, guanti in tinta e un panama con la fascia di seta candida e la falda ampia. Si guardò allo specchio e si battezzò Asraele. Quindi si calò nel ruolo del gentiluomo.
Fuori imbizzarriva il carnevale. Si mischiò a quella folla alla ricerca della sua donna. L’aveva amata con feroce trasporto in passato, quando era solito indossare la maschera del Dio Eros; poi lei l’aveva lasciato. Una mortale che osa rifiutare l’amore di un angelo: una bestemmia! Sentì la ferita all’orgoglio mordere duro. La bile della superbia frustrata, l’acre dell’umiliazione, l’avevano costretto a cambiare faccia, personaggio, nome. L’avrebbe ritrovata e non avrebbe fallito: l’avrebbe sedotta. L’avrebbe fatta innamorare nuovamente, facendole perdere la testa.
Si rese conto di quanto la sua brama fosse vana. Se anche si fosse imbattuto in lei, le probabilità di riconoscerla erano esigue. Ma la volontà di un angelo piega ai suoi scopi il destino, l’avrebbe incontrata perché l’aveva deciso nella sua lucida determinazione. Ineluttabile.
Ovunque era assediato da una turba di grida, maschere, coriandoli. Si fuse in quella massa facendosi trasportare come una barca alla deriva.
Quella bufera lo costrinse a solcare i colori del suo rancore, come una catarsi grottesca. Attraversò il denso del blu dove incontrò ebbrezza e solitudine; il sanguigno del porpora con la sua giocosa virtù; la verde spelonca ornata di speranza disillusa in abiti sgargianti e pacchiani; il kitsch arancione e la sua allegria dei naufraghi pregna di vuota superficialità; il calore familiare del bianco con la sua indolente flaccidità fatta di quotidianità affettuosa sporcata dalla ipocrisia millantatrice; e infine la mistica del violetto dove potere e controllo celebravano sordidi sodalizi. Provò un disgusto profondo, ma giunto davanti a un museo ornato di velluto nero con venature di scarlatto seppe di essere alla meta. Imboccò il corridoio illuminato da pesanti bracieri che correvano lungo entrambe le pareti, adagiati su tripodi di ferro. Attraversò le sette sale addobbate e nell’ultima trovò la festa da ballo. Scansando le coppie che volteggiavano come le rapide di un fiume, raggiunse la pendola d’ebano antico. I loro occhi si incontrarono e in quella corrente che si era stabilita tra loro lei sorrise senza interrompere il flusso. Riconobbe quello sguardo magnetico nonostante la maschera. Sfoderò tutto il suo fascino angelico per soggiogarla. La lambì come un cacciatore con la preda, e seppe che gli occhi di lei lo seguivano. Dopo un’attesa calcolata, si avvicinò e tese semplicemente la mano per invitarla a ballare. Lei esitò un attimo. Poi porse la sua mano diafana col dorso all’insù. Lui la afferrò e si produsse in un raffinato baciamano. Dopo la strinse tra le braccia e cominciò a ballare.
Le loro pelli si riconobbero, i loro movimenti ritrovarono percorsi naturali per svelarsi un segreto nascosto di magici rituali. Nella mistica della loro unione furono di nuovo due parti della stessa entità. Come due pezzi di un puzzle smarriti dal vento, che si cercano perché solo uniti possono ritrovare la completezza.
La donna disse in un sussurro:
“Il suo abbraccio è suadente come una favola. Mi fa sentire accolta come a casa; ballare con lei è naturale come se lo avessi fatto da sempre. Solo un’altra persona mi ha regalato questa emozione. Se il suo volto non fosse diverso, direi che i miei brividi riconoscono il mio amore scomparso. Ma credo che sia il mio desiderio a ingannarmi come in sogno. Mi dica come si chiama, la prego?”
“Mi chiamo Asraele.” Si limitò a dire con la voce di miele e le pupille screziate di giada. In quell’attimo gustò il trionfo, l’aveva incantata di dolcezza.
“Come mai lei non è mascherato, Asraele?”
“Oh ma lo sono, dolce colomba intirizzita. Il travestimento che ho adottato è la maschera del desiderio, della vita che suadente accade.” I suoi occhi dardeggiarono un lampo grigio d’acciaio come un’affilata crudeltà.
Allora lei lo riconobbe. Il suono di quella voce che aveva sperato con tutte le forze di rincontrare per poterle chiedere perdono, le invase la mente delle emozioni di quel tango di tanti anni prima. Il respiro le si mozzò in gola per la gioia, ma prima che potesse proferire parola, sentì un dolore sordo rendergli sterile il petto. Guardò verso il basso e vide che la mano dell’uomo era penetrata nella sua cassa toracica e sentì le dita stringergli il cuore. L’organo pulsò nella mano una, due volte prima che lui lo strappasse dal suo nido. Poi fu solo deliquio e un torpore tiepido a diluire ogni energia.
“Addio Berenice, il cuore che non hai voluto donarmi in vita, me lo prendo nella morte. Adesso sarà mio per sempre.”
“Amore, hai rubato ciò che già ti apparteneva. A lungo ho sperato un destino diverso per noi, ma sei sparito non lasciandomi modo di riparare.”
Spirò tra le sue braccia in un sorriso di celeste felicità.
Nelle lacrime amare che gli rigavano di sangue le gote, Asraele comprese che la vita l’aveva ingannato, umiliando la prepotenza della sua presunzione. Nel dolore che gli accartocciava l’anima, l’angelo caduto capì di amarla ancora e seppe che aveva peccato.
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