IRENE ARMARO
LA BOTTEGA DEL SIGNOR M.
Osservavo ogni mattina il signor M aprire le saracinesche e non mi riuscivo mai a capacitare di come facesse a lavorare in un posto così scuro, immerso nel suo delirio di maschere, pizzi e merletti. Quegli occhi vuoti che ti fissavano con ferocia, azzannandoti l’anima, quelle bocche rosso acceso che sembravano sbavare sangue, quegli zigomi appuntiti confezionati per trasformare e contorcere il viso.
Sbirciare all’interno della bottega del signor M mi aveva sempre trasmesso un senso di inquietudine inspiegabile: tutta quella finzione accecava e faceva aggrovigliare le budella. E il proprietario, abile artigiano, creatore di fandonie prêt à porter, non si scomponeva di fronte all’ignominia delle sue creature, quelle maschere eleganti e conturbanti, famose in città per la loro fattura. Tutti i grandi teatri si accapigliavano per varcare la soglia del negozio e per stringere la melliflua mano del signor M. Mia madre diceva sempre che non avrei dovuto sbirciarlo dalla finestra, ma non aveva il coraggio di ammetterne il motivo.
Il signor M riusciva a curare le sue opere come fossero vive, spazzolando i capelli alle maschere che li possedevano, lucidando i fregi e lisciando i pizzi, con una minuzia chirurgica quasi maniacale. Doveva essere proprio il modo in cui si muoveva a risvegliare in me un sentimento ambiguo, di ammirazione che sfociava in inquietudine. Avrei voluto toccare quei volti vuoti, dai nasi pronunciati, o addirittura indossarli, farli aderire con leggerezza alle mie guance per calarmi in un mondo dal sapore antico. Solo possedendo una di quelle maschere avrei potuto capire perché il signor M vi dedicasse tutta la sua vita. Era un uomo logoro, spento, leggermente curvo su di sé, grigio nel modo di atteggiarsi e vestirsi, come se la sua linfa vitale fosse stata assorbita dal suo lavoro. I suoi occhi erano annacquati dal tempo e dall’inerzia della quotidianità, le rughe si condensavano intorno alla bocca aspettando che un sorriso potesse farle rivivere, condannate invece a giacere inerti come fessure prive di spessore.
In una mattinata spenta, decisi di violare la riservatezza del signor M, per dimostrare a me stessa e al circondario che non ci fosse nulla da temere. In realtà, non lo avrei mai ammesso a me stessa, ma mi sentivo attratta da quel luogo angusto, denso di simboli carnevaleschi e ghigni sommessi. Scesi a piccoli passi le scale e mi buttai nel traffico di anime che popolava le strade, cercando di confondermi tra cappotti e ombrelli. Il signor M come al solito lucidava, scartavetrava, limava, incollava, lasciando che le gocce di sudore colassero sui volti d’oro e argento di Arlecchino, Brighella e Colombina. Anche io sudavo, perché per qualche strano motivo sentivo di avere tra le mani la possibilità di accarezzare il segreto di qualcuno.
Approfittai del fatto che il tetro proprietario si fosse un attimo ritirato nel laboratorio e mi affacciai alla vetrina per sbirciare tra i tessuti e le protesi. Sul bancone c’erano i resti di una piccola maschera disunita i cui contorni svanivano in lembi di pizzo sfilacciati. Gli occhi colavano all’ingiù e la bocca si arricciava in una posa sofferente, come una maschera tragica dell’antica Grecia.
Mentre indulgevo in sentimenti di pietà per quella ‘creatura’, il volto del signor M mi si parò dinanzi in modo inaspettato. Con i suoi ‘occhi di bragia’, sembrava volesse intimarmi di allontanarmi, ma per tutta risposta girai la manopola della porta ed entrai. Odore di colla e di stantio, luce giallognola, scricchiolii del legno sembravano suggerire che il negozio fosse poco curato, nonostante il signor M dedicasse ogni istante della sua esistenza a quelle quattro mura.
“Desidera?”, esclamò con stizza l’uomo, che si ergeva dietro il bancone.
“Volevo solo dare un’occhiata, abito qui di fronte e non ho mai avuto il piacere di fare un giro nel suo negozio…o di indossare una maschera”, dissi con audacia.
Il signor M prese con delicatezza il pezzo adagiato sul tavolo e me lo porse: “Ne ho proprio qui una che fa al caso suo”. Il suo sguardo si illuminò mentre cercava approvazione nel mio; non lo avevo mai visto così sinceramente contento dell’interesse di qualcuno verso le sue opere, per cui mi ricredetti all’istante sul suo conto. Afferrai la maschera e la portai al volto, sentendo montare in me una sensazione piacevole, che mai avrei pensato potesse derivare da un atto così riprovevole come quello di nascondersi al mondo. Il tessuto aderiva sugli zigomi quasi fosse stata pensata per me e la mia pelle si adagiava in quei solchi senza indugio. “Sembra proprio fatta per lei, le sta d’incanto”, disse con voce suadente il signor M, che aveva sfoderato stranamente un sorriso. Era stato un bene non ascoltare le bugie della gente e avvicinarsi a quell’uomo misterioso. Mi diede uno specchio per osservarmi, ma non appena rivolsi lo sguardo verso la superficie liscia provai un senso di disgusto. La maschera aveva preso possesso del mio volto, deformandolo in un ammasso di muscoli contratti; un’identità nuova, sofferente, si era materializzata e questa atroce consapevolezza mi fece mancare l’aria. Urlai e provai a strappar via lembi di tessuto, ma senza alcun risultato. Era la mia carne a sfilacciarsi, portandosi via brandelli di me, facendomi precipitare in un incubo melmoso e buio.
Era la punizione per aver voluto provare il brivido della finzione? Ora riuscivo a vedere veramente il signor M, un uomo deforme, spigoloso e arcigno come un diavolo dell’inferno, che sorrideva inebriato della sua follia. “La vanità acceca, la tentazione di vestire i panni altrui punisce l’uomo che non sa accontentarsi”, urlò quell’essere maligno mentre mi contorcevo sul pavimento cercando di staccare dalle guance la maschera ardente.
Non ci riuscii mai.
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